lunedì 27 maggio 2013

Spritz Outsourcing: Insourcing e orgoglio manifatturiero, è l'ora del “ritorno in patria”?

Outsourcing (in inglese letteralmente "approvvigionamento esterno") si traduce in italiano con "esternalizzazione", senza entrare nei dettagli e nel significato preciso del termine, nella vulgata comune significa trasferire alcune proprie produzioni (es. semilavorati) o la gestione di servizi interni (es. l'IT) ad altre aziende all'estero. Il ritorno delle fasi del processo produttivo all'interno dell'azienda (inhouse) sono chiamate backsourcing (vedi anche internalizzazione).

Tradizionalmente le imprese esternalizzano verso paesi esteri che offrono costi del lavoro più bassi (es. Cina e paesi emergenti) e/o sgravi fiscali (es. Iralnda).

Il punto della discussione però sono alcuni trend che stanno emergendo. Fino ad oggi, i politici delle nazioni a economia matura, hanno resistito l'outsourcing perchè nella psiche dei cittadini equivaleva a portar via occupazione in favore di paesi emergenti dove, per contro, i costi erano bassi anche perchè le condizioni del lavoro non seguivano gli stessi standard di alta sicurezza, salute e giusta retribuzione raggiunte nei paesi di esconomia avanzati attraverso un secolo di rivendicazioni sindacali e miglioramenti sociali. Tuttavia, questo non ha fermato il business dell'outsourcing/esternalizzazione, anzi, se un pallone da calcio cucito a mano costava 9.99 euro o una maglietta 2.99 euro, gli acquirenti occidentali continuavano ad acquistarli mentre i produttori continuavano a lavorare in condizioni obrobriose. Insomma, occhio non vede, portafoglio non piange. 

Un giorno sarà da riportare in America anche quella
prigione gestita in outsourcing a Cuba
Da un paio d'anni però la musica sta cambiando. A metà 2012, General Motors decide di riportare in azienda buona parte delle funzioni IT in precedenza affidate in outsourcing. Cioè, chiude il contratto con un'azienda indiana e decide di gestirsi da se i propri sistemi informatici. Il che ha scatenato il dibattito tra gli operatori del settore (vedi Outsourcing contro insourcing. L’ora del “ritorno a casa”?).

Il crollo della fabbrica in Bangladesh ha aperto gli occhi a molti sul vero prezzo da pagare per le magliette a prezzi stracciati.

Poi ci si è messa la perdurante crisi economica in Occidente dove la mancanza di lavoro è il problema numero uno e vedere le proprie aziende che spostano fabbriche o servizi all'estero è sempre meno tollerato dall'opinione pubblica. Inoltre, il trasporto della produzione dai paesi emergenti verso i mercati occidentali è progressivamente aumentato come pure sono aumentati i livelli di insoddisfazione dei lavoratori spesso veri e propri schiavi nei tuguri di qualche impresa cinese o del Bangladesh. I suicidi nelle fabbriche cinesi ne sono uno dei segnali (vedi la Fabbrica dei Suicidi). Sebbene le rivendicazioni salariali cinesi hanno portato i salari a triplicare in 5 anni. 

Made in Friuli
Così oltre alla General Electric che ha riportato in Kentucky dalla Cina gli impianti di produzione di lavatrici, frigoriferi e radiatori, ci sono Google realizzerà il nuovo NexusQ in California, a San Jose, nella costosa Silicon Valley e Catepillar che produrrà scavatori in Texas. Di fatto la prolungata disoccupazione ha ammorbidito la forza lavoro occidentale spesso più disposta a prendere lavori che una decade fa avrebbe rifiutato, i processi di produzione richiedono meno manodopera ma più specializzata premiando quindi i talenti e gli studi che qui in occidente abbondano e che oggi son disposti a salari da operaio di linea di anni fa pur avendo maggiori studi alle spalle. Negli USA pure i sindacati sono più disponibili a dialogare ed evitare contrapposizioni purchè si aprano fabbriche. Secondo studi, ben il 37% delle imprese americane sotto il miliardo di dollari sta pensando di far rientrare in patria le produzioni e i servizi IT (vedi Correire della Sera - Addio outsourcing, torna l'orgoglio del made in USA).

A chiudere il cerchio arriva la dichiarazione del presidente di Confindustria, Squinzi, che alla recente assemblea nazionale ha dichiarato che  «Per tornare a produrre più benessere l'Italia deve fare leva sulla sua risorsa più importante: la vocazione industriale in tutte le sue declinazioni. Il manifatturiero è il motore del nostro sistema». Con il primo ministro Letta che gli ha risposto «Dobbiamo avere come obiettivo una nuova leadership europea in campo industriale» e «raggiungere nel 2020 il 20% del pil prodotto dall'industria e dalla manifattura in Italia e in Europa» (vedi "Squinzi lancia l'allarme: Nord sull'orlo del baratro".

Da un lato è un modo per dire che con la crisi il manifatturiero è sceso al 18% del PIL Italiano e va riportato dov'era, cioè al 20%, ma dall'altro, è una svolta epocale perchè è da tre decadi che nel mondo occidentale si predicava la novella per cui la manifattura era finita e noi si doveva vivere di servizi lasciando le fabbriche a quelle zone del mondo in cui i costi dei salari erano stracciati e i lavoratori avevano poche pretese perchè in corsa per lo sviluppo. Le "business schools" ci hanno sguazzato formando un'intera classe dirigente di yuppies che guardano dall'alto in basso il "costruire cose" invece di impacchettare servizi.

In bar, il C.A.F.O.N. discute se la convergenza di avanzate tecniche produttive, alta specializzazione scolastica dei lavoratori occidentali coniugata con ridimensionate aspettative salariali e più bassi costi di trasporto dal produttore al consumatore, abbia di fatto chiuso l'epoca dell'esternalizzazione ed aperto la  re-industrializzazione delle economie mature. 

C'è chi dice che è solo un dietro-front temporaneo e chi invece vede nuovi scenari di crescita qui da noi legati alle manifatture d'eccelenza. 

...e il dibattito continua in-house nel bar

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